martedì 25 giugno 2013

Cor Jesu Sacratissimum


Cor Jesu Sacratissimum




“Quando un gran personaggio muore di malattia straordinaria –dice San Francesco di Sales –si fa l’autopsia del cadavere per scoprire la causa del trapasso. Spirato Gesù, il divin Padre volle agire similmente. Spinto da una mano invisibile, un soldato si avanzò, vibrò la lancia e colpì il petto esanime del Redentore e attraverso la ferita fu rivelata la vera causa della sua morte. Era il suo amore, era il suo cuore…”.

Il culto al Sacro Cuore di Gesù inizia con quella lancia che lo trapassò in quel tragico e glorioso Venerdì Santo. Gesù, in quel giorno solenne, manifesta il suo Cuore e l’offre come oggetto di culto alla sua Chiesa nascente.

San Cipriano scrisse: “Da questo Cuore aperto dalla lancia discende la sorgente di acqua viva che zampilla fino all’eterna vita”. San Giovanni Crisostomo, cantando al Sacro Cuore, lo invocava come “immenso mare di inesauribile clemenza”. Sant’Agostino lo paragona all’Arca di Noè e afferma: “Come per la finestra dell’Arca entrarono gli animali che non dovevano perire nel diluvio, così nella ferita del Cuore di Gesù sono invitate ad entrare tutte le anime, affinchè tutte si salvino”.

San Pier Damiani così cantava: “Nell’adorabile Cuore di Gesù noi troviamo tutte le armi proprie per la nostra difesa, tutti i rimedi per la guarigione dei nostri mali”.

E come non ricordare la bella espressione di San Bernardo: “O dolcissimo Gesù, quale tesoro di ricchezze voi adunate nel vostro Cuore! Oh, quanto è buono, e com’è giocondo abitare in questo Cuore!”.

“Oh amabile piaga! –esclamava San Bonaventura –per te mi si aperse la via per giungere fino all’intimità del Cuore del mio Gesù e per stabilirvi la mia dimora”.

Da questa dimora santissima scaturirono il sangue e l’acqua, simboli delle più grandi meraviglie dell’opera redentiva.

Essi rappresentano, anzitutto, la nascita della Chiesa, la quale, simile ad una sposa, esce bianca e vermiglia dal Cuore aperto del secondo Adamo, addormentato sulla croce, nello stesso modo che Eva, la madre dei viventi, era uscita dal costato del primo Adamo. Il Cuore di Gesù diviene dunque la culla della Chiesa e genera a Dio un’intera famiglia. Da questo Cuore squarciato dalla lancia del soldato scenderà d’ora innanzi ogni grazia sul mondo e sulle anime.

Ma, in modo speciale, l’acqua e il sangue rappresentano i due principali Sacramenti che costituiranno nella Chiesa le due grandi sorgenti di vita.

La Chiesa dovrà prima generare a Dio dei figli, e tale generazione avverrà col Battesimo. L’acqua del costato di Gesù, fecondata dallo Spirito Santo, farà nascere l’uomo alla grazia. “il segno sensibile –dice San Tommaso –deve essere atto a rappresentare la grazia invisibile che conferisce”.

L’acqua farà dell’uomo, macchiato dalla colpa originale, un angelo immacolato e radioso.

Ma la Chiesa, oltre a generare i figli deve anche nutrirli. Il Cuore di Gesù allora si apre e dà alla Chiesa il sangue per questo nutrimento, il cibo “sovra sostanziale” che alimenterà le anime nel terreno esilio. “Nel santo sacrificio della Messa –scrive A. Chauvin –il sacerdote, nuovo Longino, apre il Cuore Sacratissimo con la spada della sua parola e ne fa sgorgare il Sangue divino che alimenta la vita del mondo.

E ogni volta che abbiamo la grazia di comunicarci, noi applichiamo la bocca su questa piaga, le nostre labbra bevono al costato aperto del Salvatore; lo stesso Sangue che sgorgò dal Cuore di Gesù sulla croce, discende a fiotti nella nostra anima per purificala e abbellirla”.

Chi potrebbe ridire gli immensi benefici che il mondo ha ricevuto e continua a ricevere dal Sacro Cuore, dal momento in cui fu squarciato dalla lancia del soldato? Longino stesso, al dire di San Gregorio Nazianzeno, il barbaro soldato che trafisse il Sacro Cuore, fu subito guarito da una malattia d’occhi per qualche goccia di sangue zampillato dalla piaga aperta nel momento in cui ritirava l’arma.

Anzi, toccato dalla grazia di Dio e convertito alla fede, divenne uno dei primi adoratori del Cuore della Vittima divina.

La ferita che ci rivela il Cuore di Gesù non si è chiusa e rimarginata nella Resurrezione, ma sussiste in Cielo e nell’Eucarestia ed è la più bella gemma che l’amore di Gesù abbia meritato nel combattere contro l’inferno. Egli, il Salvatore del mondo, volle che il suo Cuore fosse aperto, perché noi gli aprissimo il nostro. L’amore richiede amore.



Tratto da: De vita Contemplativa – Giugno 2013

Rivista mensile a cura delle Suore Francescane dell’Immacolata –Monastero delle Murate –via dei Lanari, 2 -06012 Città di Castello – PG – Italia

Tel. 075-8555779 e-mail: francescanecittacastello@interfree.it

Per offerte di sostegno alle spese di stampa e diffusione:

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La stella mancante nella corona di Maria



“La misericordia immensa di Maria – ha scritto san Giovanni Crisostomo – salva un gran numero di infelici che, secondo le leggi della divina giustizia, andrebbero dannati.”

 

Sono tanti i titoli che la pietà popolare, di pari passo al Magistero, ha tributato alla S.Vergine attraverso i secoli; a cominciare dalle litanie, l’esempio più conosciuto, o i dogmi proclamati fino al 1950 (esauritisi con l’Assunzione, dolce realizzazione di quella prima profezia mariana: “tutte le generazioni mi chiameranno beata”).

Questo coro di venerazione e amore testimonia come ogni istante di vita della Madonna sia stato santificato in modo impareggiabile, fin da prima della nascita, a motivo della sua missione unica nella storia dell’umanità.

Solo il nostro tempo, per quanto segnato dal proliferare di reali o presunte apparizioni mariane, risulta così amaramente restio a riconoscere e proclamare solennemente i trionfi di Maria. Prevedendo sicuramente questo “raffreddarsi della carità” la S. Vergine è scesa, in un’apparizione particolare –Fatima –proprio per chiedere che si stabilisse la devozione al suo Cuore Immacolato tramite una Consacrazione solenne e generale e affidando una rivelazione segreta ancora oggi avvolta dal mistero e dall’ostracismo clericale.

Il messaggio più importante e consolante è però chiaro: “alla fine il mio Cuore Immacolato trionferà”.[1]

Al momento, per quanto si affannino in curia a rassicurare come Fatima si riferisse al ventesimo secolo e sarebbe quindi superata[2], per quanto si continui pervicacemente ad ignorare le obiezioni di molti illustri scrittori, giornalisti e anche di semplici fedeli di fronte alle contraddizioni troppo palesi, anche un cieco potrebbe capire che siamo ben lontani dal vedere questo “trionfo”. La Madre di Dio non mente, dunque basterebbe questo dato per rendersi conto che la profezia è stata prematuramente accantonata, come qualcosa di scomodo e fastidioso.

Oltre all’urgenza di adempiere la consacrazione in modo scrupoloso,[3] senz’altro priorità assoluta essendo stata esplicitamente domandata dalla Madonna, un’altra stella però brilla tristemente per la sua assenza nella corona della Regina del Cielo: quella del dogma della Corredenzione.

Mala tempora currunt se definire questa verità appare un “torto” che sminuirebbe, secondo certi sedicenti teologi filo protestanti, la Redenzione del Figlio.

A questo proposito conviene attenersi alla sicura posizione di schiere di santi che non hanno mai mostrato un simile, assurdo “timore”. Potremmo citare dozzine di interventi in questo senso giacché purtroppo non sono mai mancati questi “puristi” di matrice luterana –ci accontentiamo di quella, lapidaria, di S. Massimiliano Maria Kolbe: “ non temete di amare troppo la Madonna, perché non arriverete mai ad amarla come l’ha amata Gesù”.[4]

Purtroppo, così come per il segreto di Fatima, neppure i Papi sono esenti da omissioni e indecisioni: durante la fase preparatoria del Concilio Vaticano II ben 313 Vescovi avevano presentato questa petizione: “Doctrina mediationis universalis beatae Mariae Virginis definiatur ut dogma fidei”. Purtroppo nell’assise evidentemente la Madonna era di troppo due volte: in primis, nell’aver ignorato la richiesta della Consacrazione e di rivelazione del segreto di Fatima, in secondo luogo anche in questa mancata definizione. Non c’è da stupirsi troppo, rifuggendo il Concilio Vaticano II espressamente per sua natura, questa via, preferendogli quella della semplice “pastoralità”, deponendo, di fatto, la massima autorevolezza.

Oltre alle obiezioni teologiche, un altro elemento “disturbante” che forse ha ostacolato o quantomeno inquinato il dibattito, è costituito dalla discussa apparizione, ad Amsterdam, di “Nostra Signora di tutti i popoli”, dal 1945, attualmente appoggiata dal Vescovo locale ma condannata nel 1974. Quest' apparizione appare insolitamente benevola verso le aperture e le innovazioni, soprattutto ammicca in modo ambiguo all’ecumenismo di stampo massonico dei nostri tempi.

Nei messaggi di Amsterdam si preme insistentemente sulla proclamazione del futuro quinto dogma mariano della Corredenzione e Mediazione universale di Maria: è da sottolineare, tuttavia, come accanto a “profezie” avverate (ma controverse nei tempi di comunicazione), convivano altre, non realizzatesi, segnale non incoraggiante circa la natura divina.[5]

Questi fatti tuttora non limpidi, sommati alle reticenze progressiste, hanno probabilmente creato un’“ombra” di eterodossia, oltre che di “politicamente scorretto” circa un dogma che, nella sua essenza risulta totalmente in linea con la tradizione cattolica.

E’ triste sottolineare come l’unico dogma del ventesimo secolo sia stato quello relativamente “innocuo” dell’Assunzione, che anzi, poteva creare simpatie presso gli ortodossi e dunque in un certo senso ecumenicamente non sgradito.

La Corredenzione di Maria è un tema molto caro a santi appassionatamente anti ecumenici come S. Massimiliano Maria Kolbe, fiero avversario della massoneria e del relativismo religioso e in generale, come del resto anche vari altri privilegi mariani, dei figli di S. Francesco.

Molti predicatori di detto ordine religioso durante il periodo della controriforma arrivarono al cosiddetto “patto di sangue”, ossia al voto solenne di difendere e proclamare a costo del sangue, il dogma ancora non ufficialmente stabilito al culto universale, dell’Immacolata concezione e si dice che S. Massimiliano abbia fatto lo stesso per quello della Corredenzione.

Non spetta naturalmente a questa sede né soprattutto a questa penna stabilire i termini teologicamente più appropriati (ad esempio tra Corredenzione e Mediazione ecc.), ma anche un semplice fedele può auspicare con tutto il cuore di vedere esaltata la propria Madre.

Non è forse vero che Dio stesso ha voluto vincolare la venuta nel mondo del proprio Figlio al “fiat” di questa donna “alta più che creatura”?

E’ altrettanto vero che quella stessa accettazione si è rinnovata sotto la croce, a testimonianza di fedeltà imperitura, nella gioia come nel martirio del cuore.

La sete che bruciava il Redentore durante l’agonia sul proprio trono doloroso, era ardore di non sapere più cos’altro donare e consumare per guadagnare anche solo un’altra anima. Ben sapeva, infatti, Gesù, che nonostante quei patimenti inenarrabili, tante anime sarebbero corse ugualmente alla perdizione. Di tutto si era spogliato ormai l’Uomo Dio: aveva offerto al tormento fino all’ultimo brandello di carne e di anima. Eppure una cosa, gli restava ancora: la Madre sua, incrollabile alla sua sequela, fino all’estremo. Ecco, allora, che come un campione compie l’ultimo guizzo verso il trionfo, l’opera redentiva in un certo senso consegna il testimone a lei, a Maria: sarà la nostra Madre, non più di un Unigenito solamente, ma di tutta l’umanità. Una sorta di prolungamento miracoloso dell’azione salvifica perché a Dio nulla è impossibile: se crediamo che l’Eucarestia rinnovi misteriosamente la Passione del Signore, non possiamo non contemplare il secondo abisso di misericordia: Maria, Madre della Chiesa. I Padri hanno letto nel sangue e nell’acqua sgorgati dal costato altre simbologie: nondimeno possono rammentarci questa consolante verità, le due colonne a cui aggrapparci nella tempesta, come vide in sogno don Bosco.

E a questa Madre deve tornare il nostro tempo, tempo in cui le coscienze sono a tal segno annebbiate che non sanno quasi più distinguere il bene dal male. A lei fu affidata la prima generazione di cristiani, a lei è affidata in modo altrettanto speciale l’ultima, cosi come accudì il Figlio nelle fasce da neonato e in quelle della salma senza vita. Alla sua consacrazione, al suo onore, sono legate le sorti del mondo ad un passo dal baratro: come un bambino che sa di aver commesso qualcosa di troppo grave, teme lo sguardo del padre che immagina severo e irato, così noi pure ricusiamo la conversione, ottenebrati dalla coscienza di una condotta troppo sporca. Solo alla più tenera delle madri, tutta pietà e dolcezza, non è possibile sfuggire: il suo cuore materno non può non inseguirci instancabile, fino a quando non ci avrà messo al sicuro sotto il suo manto celeste.

Il figlio, infatti, riconosce d’istinto la propria madre, in modo primordiale, senza l’ausilio di una particolare consapevolezza: “sa” che la voce, l’odore che avverte sono quelli che lo hanno generato. Così anche spiritualmente: perfino l’uomo più impantanato nel peccato, tanto da aver perso la più elementare bussola verso la “diritta via”, avverte inconsciamente il richiamo della propria Madre, Colei che si china su ogni fonte battesimale per accogliere ogni novello cristiano. Neppure la peggiore delle corruzioni può spezzare questo vincolo indissolubile: si è madri e figli per sempre, a prescindere dal comportamento. La stessa Eva era ugualmente madre di Abele (figura di Cristo) quanto di Caino (figura dei peccatori di tutti i tempi).

Possa il mondo vedere al più presto il giorno in cui non si temerà più di togliere a Gesù qualcosa esaltando Maria. Possa venire, ancora una volta, la salvezza dalla sua intercessione, dal suo guardare costantemente il cielo e nel contempo tendere le mani alla terra, propiziando il renderli una cosa sola.



[1] Evidentemente la Madonna prevedeva la futura “resistenza” alle richieste.
[2] Ma lo stesso Benedetto XVI ha smentito questa teoria imbarazzante per l’intelligenza dei fedeli, in occasione della sua visita a Fatima nel maggio del 2010 ( http://www.antoniosocci.com/2010/05/dunque-il-quarto-segreto-cera/ )
[3]Non essendo materia specifica di questo scritto, si rimanda allo stringato ma esaustivo riepilogo seguente: http://www.fatima.org/it/essentials/opposed/coverupdisinfo.asp
 
 
[4]Per una confutazione delle obiezioni al dogma di Maria Corredentrice:http://www.preghiereagesuemaria.it/libri/maria%20corredentrice.htm
[5] Pensiamo alla morte di Pio XII, occasione in cui la veggente viene altresì edotta circa il successore che avrebbe dovuto proclamare il dogma.

 


venerdì 24 maggio 2013

I castighi di Dio: Giustizia e Misericordia



I Castighi di Dio: Giustizia e Misericordia

 

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Luca Giordano (1632, Napoli - 1705, Napoli) “Cristo scaccia i mercanti dal tempio”, metà anni 1670, Olio su tela, 198x261 cm, State Hermitage Museum, St. Petersburg

 

Il tema del Dio “giudice”, per quanto obnubilato dalle omelie nelle nostre parrocchie, sopraffatto dalla cultura del “volemose bene” ha sempre suscitato interesse nel corso di tutta la storia. E’ invero, una materia di difficile trattazione, resa ancora più ostica a noi moderni, intrisi fino al midollo della suddetta assuefazione al lassismo, continuamente rassicurati dal ricordo di una malintesa infinita misericordia, che prescinde dall’altro elemento cardine e “costituente” di Dio: la perfetta giustizia.

Parlarne oggi, significa inevitabilmente evocare suggestioni “medievali”, di flagellanti, di penitenze quasi incredibili, un rigore e di un “timore” inteso come paura e assoggettamento a una specie di forza superiore punitrice.

Un concetto scomodo per chi, figlio della ribellione sessantottina, ha rinnegato l’essenza stessa dell’autorità, figuriamoci che l’autorità per eccellenza, Dio, si “permetta” addirittura di chiedere conto del comportamento umano a livello individuale e collettivo.

Non essendo possibile in questa sede una disamina generale, dopo una necessaria premessa, si procederà analizzando una parte ancora piuttosto inesplorata della questione: quella che riguarda il rapporto tra la colpa individuale e il peccato cosiddetto “sociale” e in che misura e per quale scopo intervenga il castigo collettivo.

Non può essere sfuggito, neppure al più occasionale frequentatore di parrocchie come, da almeno un secolo e mezzo, si siano susseguite apparizioni mariane –approvate e presunte –aventi per messaggio pressoché unanime l’invito alla conversione volta a scongiurare un altrimenti inevitabile castigo.

Tutta la religione cattolica, si può ben dire, prende le mosse dal concetto di colpa-espiazione-restaurazione. Volersi burlare di questioni come il peccato originale e attuale significa né più né meno distruggere le fondamenta stesse del cristianesimo, essendo Cristo il “Redentore”. Se si elimina il peccato, da cosa ci avrebbe dovuto salvare Nostro Signore? Forse dalle malattie, dalla fame e dalla “disparità sociale”? Beh, con il dovuto rispetto questa risposta fa un torto o alla nostra intelligenza o alle capacità di Gesù. Dove sarebbe questo tipo di salvezza? Mai come oggi l’iniquità sociale dilaga: possibile che dopo più di 2000 anni il sacrificio del Figlio di Dio abbia prodotto questo risultato, se il fine fosse davvero questo?

Naturalmente la verità cattolica rivendica ben altre istanze, che un secolo così mondanizzato come il nostro non riesce, non dico ad accettare, ma neppure a intravedere.

Le piaghe che suscitano al contempo lo sdegno e la compassione divina non sono quelle visibili come le malattie, l’indigenza, neppure la morte fisica. Queste sono infatti solo la “punta dell’iceberg”, causate in modo diretto o indiretto proprio dal vero cuore del problema: il peccato.

Dio essendo Intelligenza somma, vede con una precisione inarrivabile le cause e le conseguenze devastanti anche del più piccolo peccato veniale. Come un’aquila che coglie il sassolino sulla montagna che col suo impercettibile spostamento causa una valanga inimmaginabile, o come il medico che con occhio esperto e strumentazione sofisticata individua il male alla radice e le sue propaggini.

Questa dilazione non deve illudere alcuno: Dio non si presta nel modo più assoluto ad “abbonare” alcunché, altrimenti risulterebbe profondamente ingiusto verso chi si è astenuto sempre dal male e avrebbe ragione lo zelo amaro del “figlio maggiore” della parabola del Padre Misericordioso. Se è vero, infatti, che Dio può disporre dei suoi beni come vuole, è altrettanto vero che non getta le perle ai porci. Prima di riabbracciare il figliol prodigo aspetta quell’embrionale moto di contrizione che attira l’immediato abbraccio paterno. Tanto basta, agli occhi di Dio, ma non è opzionale: il perdono si ottiene unicamente attraverso l’umiliazione e il riconoscersi peccatore. Se questo avviene, i più grandi miracoli e dispiegamenti di grazia sono possibili. Persino il buon ladrone, nell’ultimo istante di vita può rubare il cielo attraverso questo duplice sguardo alla propria miseria e alla divinità di Gesù.

Se il medico fosse stato più “pietoso” –ad esempio se Dio avesse risparmiato al ladrone la condanna e la morte –forse avremmo un santo in meno in paradiso e un delinquente in più all’inferno. Questo prova che Dio suole castigare chi ama e chi vuole salvare, per quanto dura questa verità sia da accettare. A nessun infermo piace il sapore della medicina, eppure come si giudicherebbe il dottore che non somministri, per questo, l’antidoto che conosce e possiede?

Abusare della misericordia divina servendosene per radicarsi maggiormente nel male attraversp (s)ragionamenti come: “tanto Dio perdona sempre, tanto l’inferno è vuoto” è più grave dei peccati stessi che si vogliono così scusare. Non a caso “presumere di salvarsi senza merito” è annoverato dal catechismo tra i peccati “contro lo Spirito Santo”, esattamente al pari dell’opposto, cioè disperare della salvezza. Sono entrambi gravissimi torti verso Dio: nel secondo caso lo si ritiene non “abbastanza buono” ma nel primo addirittura si usa della sua bontà per offenderlo più a cuor leggero ed è un peccato ignobile e vile che purtroppo oggi viene spacciato addirittura per alta teologia. Che cosa penseremmo se ci regalassero qualcosa di estremamente bello e prezioso e ci si servisse dello stesso regalo per fare del male al donatore?!

Il termine stesso, “castigo” viene dal latino “castum agere” cioè letteralmente “rendere mondo”, “purificare”. Basterebbe riflettere sull’etimologia per comprendere come lo scopo più comune e principale del castigo sia correggere un comportamento deviato e insegnare a non ricadervi. Un genitore insegna al bambino, ancora inconsapevole delle conseguenze di certe sue azioni “spericolate”, come astenersene anche attraverso i castighi, laddove i richiami e altri metodi hanno fallito. Lo stesso fa con noi il Padre celeste: il peccatore, sordo ad ammonimenti più “blandi” va talvolta rimesso in carreggiata solo tramite uno scossone.

Il problema si complica però a causa di due circostanze su cui si riflette, se possibile, ancora meno.

Il gesto in sé viene perdonato, tuttavia ogni peccato accumula un “debito” con la giustizia divina, essendo offesa infinita perché l’oggetto, Dio, è appunto infinito.

Al giorno d’oggi siamo abituati a ricevere in confessionale penitenze che definire blande è eufemistico: qualche pater ave gloria, nei casi più zelanti forse una corona di rosario. Senza entrare nel merito specifico (solo il confessore, per mezzo della virtù della prudenza sa cosa è meglio: probabilmente se aumentasse la penitenza, si potrebbe rischiare che molti non l’assolvano adeguatamente) si vuole però sottolineare come questo perdono “facile” possa, su diverse coscienze già deboli, ingenerare l’equivoco per cui il peccato, in fondo, è cosa di poco conto se si “rimedia” con così poco.

Per dissipare un simile, terribile inganno, basta rimirare il crocifisso. Ecco cosa provoca il peccato, ecco cosa è servito per lavarlo: il sangue divino fino all'ultima stilla.

E’ solo grazie a quel sacrificio di valore infinito che noi ce la “caviamo” con un pater ave gloria. Perché c’è chi ha pagato il prezzo pieno, anzi oltre ogni misura in nostra vece.

Approfittarsi di questo scudo è adempiere la volontà di chi lo ha versato: ogni cristiano, nel sacramento della penitenza, lo invoca e se ne riveste quale condizione per presentarsi senza tremare alla Comunione. Approfittarne però con malizia, per continuare a peccare tacitando rimorsi di coscienza è commettere un gravissimo sacrilegio.

 

Il secondo elemento, che è pressoché estraneo al cattolico della domenica (e ahimè, anche alle omelie domenicali…), ci ricorda di come il peccato abbia non solo una dimensione individuale, bensì anche sociale. L’uomo non pecca sempre da solo: uno scrittore che pubblichi un libro immorale oltre alla colpa personale, si addossa anche la responsabilità gravissima di aver usato il suo talento per diffondere nozioni o suggestioni negative e dunque si addossa una parte del debito di chi compierà peccati sotto l’influsso della cattiva lettura.

L’uomo che non sia un eremita vive a stretto contatto con una gran quantità di suoi simili e pertanto può essere connivente nel male o, al contrario, agevolare l’azione della grazia attraverso una parola buona, l’esempio ecc.

Questa dimensione è precisamente il motivo per cui, oltre al giudizio particolare che ogni anima deve affrontare al momento della morte, si avrà un giudizio universale alla fine del mondo. Due sono, infatti, le dimensioni del bene e del male: entrambe saranno punite o premiate a tempo debito.

Ora, dopo aver passato in rassegna questi fattori, proviamo a trarne le conclusioni logiche, applicandoli alla società presente.

Vediamo da vicino però come agisce Dio: manda una simile Madre per avvertire gli uomini prima del castigo minacciato, proprio per indicare come evitarlo (la consacrazione della Russia al Cuore Immacolato, in questo caso) e per descrivere dettagliatamente cosa aspetta in caso contrario.

In pratica è come presentarsi a un esame con un professore che ci ha già suggerito in anticipo le domande e dettato le risposte! E questa sarebbe quella che viene dipinta come la mano implacabile della giustizia divina…?

Purtroppo gli auspici celesti non sono stati accolti dall’umanità neppure dopo che i fatti predetti con tanta precisione si sono verificati puntualmente, e se il castigo appare ancora sospeso dopo tanti decenni di corruzione silenziosa, c’è da tremare al pensiero di cosa può avvenire se un Dio tanto buono “esita” a chiedere di saldare il conto.

Tuttavia questo salutare timore si accompagna alla gioiosa certezza che tutto si compirà affinché trionfi finalmente, come promesso, il Cuore Immacolato. La tribolazione del castigo è assimilabile alle doglie del parto: sono funzionali alla nascita di un’umanità migliore.

Il castigo collettivo non è uno spauracchio “nostradamico”: la giustizia di Dio potremmo definirla come l’estrema manifestazione della sua misericordia. Quando nulla più vale a rendere il lume della ragione e della fede ad un’umanità resa cieca e sorda dalla sempre più fitta coltre dei propri peccati, la sola bordata capace di squarciare questo velo che impedisce il ricongiungimento a Dio è un castigo portentoso.

Perché Dio dovrebbe riserbarlo alla nostra generazione? Perché laddove la colpa sociale cresce in maniera così esponenziale, la responsabilità individuale, al contrario, cala.

Infatti le due componenti sono inversamente proporzionali e vorrei dimostrarlo con degli esempi concreti che avvalorano questa tesi.

Sappiamo che per parlare di peccato mortale si necessitano tre elementi: la materia grave, la piena avvertenza e il deliberato consenso.

Ora, per quanto Dio abbia senz’altro impresso nell’animo umano una legge naturale e una sorta di “istinto” per discernere il bene e il male, è innegabile che il contesto, gli insegnamenti ed esempi di famiglia e società incidono, d’ordinario, profondamente nell’esperienza e nella conoscenza delle cose.

In un contesto di società cristiana o di famiglia devota, è evidente che si ha una responsabilità individuale molto alta e dunque anche un peccato lieve merita un certo rigore perché “a chi è più dato più è richiesto”.

Nel nostro tempo molti sono nati in una situazione già gravemente compromessa dal punto di vista religioso: ricevono dalla famiglia un’immagine di amore a tempo “determinato” a causa del divorzio (che idea possono farsi, queste giovani anime, dell’amore infinito di Dio senza una grazia speciale e infusa?), le domande riguardanti la fede spesso restano senza risposta a causa dell’incuria di gran parte del clero che anzi a volte con la sua condotta esecrabile anziché dissipare le tenebre ed essere luce e sale del mondo, disonorano la loro altissima missione e aggravano ulteriormente la confusione. Tutto, intorno a noi concorre a perdere la fede.

Ecco allora che un atto di virtù un tempo “ordinaria” in simile tempesta assume dei contorni e quindi dei meriti, eroici. Allo stesso modo anche delle azioni nella sfera della “materia grave” possono recare attenuanti date da una non completa avvertenza.

Ecco allora che Dio per salvare una generazione così traviata al punto da non sapere più distinguere il bene dal male non ha altro mezzo che un castigo collettivo.

In quest’ottica rifulge la grande lungimiranza di Dio che infligge un male minore (una tribolazione nel tempo) per ottenere un bene maggiore (la salvezza per l’eternità).

Possano queste semplici righe fare chiarezza sulla tanto bestemmiata Giustizia, troppo, troppo spesso opposta alla Misericordia: la Giustizia di Dio, anche nel caso più rigoroso, non è mai paragonabile all’essere abbandonati all’ingiustizia degli uomini.

Questi errori sono stati condannati a più riprese da innumerevoli concili e pronunciamenti ufficiali pontifici, eppure ciclicamente tornano ad insidiare il calcagno delle nuove generazioni di cristiani, sommamente la nostra, che ha deposto la corazza degli insegnamenti e della tradizione che ci mettevano in guardia e ci istruivano contro queste piaghe.

Rivestiamoci di queste armature e vivremo al contempo nella consapevolezza di quanto meritiamo e nella consolazione di invocare Colei che trionferà nonostante qualsiasi dispiegamento di forze infernali e, ancora una volta schiaccerà il capo del nemico di Dio e dell’uomo.