I
Castighi di Dio: Giustizia e Misericordia

Luca Giordano (1632, Napoli - 1705,
Napoli) “Cristo scaccia i mercanti dal tempio”, metà anni 1670, Olio su tela,
198x261 cm, State Hermitage Museum, St. Petersburg
Il tema del Dio
“giudice”, per quanto obnubilato dalle omelie nelle nostre parrocchie,
sopraffatto dalla cultura del “volemose bene” ha sempre suscitato interesse nel
corso di tutta la storia. E’ invero, una materia di difficile trattazione, resa
ancora più ostica a noi moderni, intrisi fino al midollo della suddetta
assuefazione al lassismo, continuamente rassicurati dal ricordo di una
malintesa infinita misericordia, che prescinde dall’altro elemento cardine e
“costituente” di Dio: la perfetta giustizia.
Parlarne oggi,
significa inevitabilmente evocare suggestioni “medievali”, di flagellanti, di
penitenze quasi incredibili, un rigore e di un “timore” inteso come paura e
assoggettamento a una specie di forza superiore punitrice.
Un concetto scomodo per
chi, figlio della ribellione sessantottina, ha rinnegato l’essenza stessa
dell’autorità, figuriamoci che l’autorità per eccellenza, Dio, si “permetta”
addirittura di chiedere conto del comportamento umano a livello individuale e
collettivo.
Questo sostanziale rifiuto
non riguarda purtroppo unicamente la falange atea o agnostica della società, ma
è penetrato in seno alla stessa gerarchia cattolica, se un De Mattei viene
bacchettato per aver espresso una posizione squisitamente ortodossa.[1]
Non essendo possibile in
questa sede una disamina generale, dopo una necessaria premessa, si procederà
analizzando una parte ancora piuttosto inesplorata della questione: quella che
riguarda il rapporto tra la colpa individuale e il peccato cosiddetto “sociale”
e in che misura e per quale scopo intervenga il castigo collettivo.
Non può essere
sfuggito, neppure al più occasionale frequentatore di parrocchie come, da
almeno un secolo e mezzo, si siano susseguite apparizioni mariane –approvate e
presunte –aventi per messaggio pressoché unanime l’invito alla conversione
volta a scongiurare un altrimenti inevitabile castigo.
Tutta la religione
cattolica, si può ben dire, prende le mosse dal concetto di
colpa-espiazione-restaurazione. Volersi burlare di questioni come il peccato
originale e attuale significa né più né meno distruggere le fondamenta stesse
del cristianesimo, essendo Cristo il “Redentore”. Se si elimina il peccato, da
cosa ci avrebbe dovuto salvare Nostro Signore? Forse dalle malattie, dalla fame
e dalla “disparità sociale”? Beh, con il dovuto rispetto questa risposta fa un
torto o alla nostra intelligenza o alle capacità di Gesù. Dove sarebbe questo
tipo di salvezza? Mai come oggi l’iniquità sociale dilaga: possibile che dopo
più di 2000 anni il sacrificio del Figlio di Dio abbia prodotto questo
risultato, se il fine fosse davvero questo?
Naturalmente la verità
cattolica rivendica ben altre istanze, che un secolo così mondanizzato come il
nostro non riesce, non dico ad accettare, ma neppure a intravedere.
Le piaghe che suscitano
al contempo lo sdegno e la compassione divina non sono quelle visibili come le
malattie, l’indigenza, neppure la morte fisica. Queste sono infatti solo la
“punta dell’iceberg”, causate in modo diretto o indiretto proprio dal vero
cuore del problema: il peccato.
Dio essendo
Intelligenza somma, vede con una precisione inarrivabile le cause e le
conseguenze devastanti anche del più piccolo peccato veniale. Come un’aquila
che coglie il sassolino sulla montagna che col suo impercettibile spostamento
causa una valanga inimmaginabile, o come il medico che con occhio esperto e
strumentazione sofisticata individua il male alla radice e le sue propaggini.
Non può dunque far
altro se non inorridire del peccato. Può arrivare a tollerarlo per un certo
nostro “tempo”, solamente in vista di una cura più mirata ed efficace com’è,
infatti, esplicitato nelle scritture laddove si enuncia il concetto della
convivenza tra grano buono e zizzania.[2]
Questa dilazione non
deve illudere alcuno: Dio non si presta nel modo più assoluto ad “abbonare”
alcunché, altrimenti risulterebbe profondamente ingiusto verso chi si è
astenuto sempre dal male e avrebbe ragione lo zelo amaro del “figlio maggiore”
della parabola del Padre Misericordioso. Se è vero, infatti, che Dio può
disporre dei suoi beni come vuole, è altrettanto vero che non getta le perle ai
porci. Prima di riabbracciare il figliol prodigo aspetta quell’embrionale moto
di contrizione che attira l’immediato abbraccio paterno. Tanto basta, agli
occhi di Dio, ma non è opzionale: il perdono si ottiene unicamente attraverso
l’umiliazione e il riconoscersi peccatore. Se questo avviene, i più grandi miracoli
e dispiegamenti di grazia sono possibili. Persino il buon ladrone, nell’ultimo
istante di vita può rubare il cielo attraverso questo duplice sguardo alla
propria miseria e alla divinità di Gesù.
Se il medico fosse
stato più “pietoso” –ad esempio se Dio avesse risparmiato al ladrone la
condanna e la morte –forse avremmo un santo in meno in paradiso e un
delinquente in più all’inferno. Questo prova che Dio suole castigare chi ama e
chi vuole salvare, per quanto dura questa verità sia da accettare. A nessun
infermo piace il sapore della medicina, eppure come si giudicherebbe il dottore
che non somministri, per questo, l’antidoto che conosce e possiede?
Il castigo divino
inoltre, come insegna S. Alfonso Maria de’ Liguori in “Apparecchio alla morte”,
è sempre "citra condignum",
cioè meno di quel che dovrebbe esser punito, proprio perché temperato dalla
misericordia.[3]
Abusare della
misericordia divina servendosene per radicarsi maggiormente nel male attraversp
(s)ragionamenti come: “tanto Dio perdona sempre, tanto l’inferno è vuoto” è più
grave dei peccati stessi che si vogliono così scusare. Non a caso “presumere di
salvarsi senza merito” è annoverato dal catechismo tra i peccati “contro lo
Spirito Santo”, esattamente al pari dell’opposto, cioè disperare della
salvezza. Sono entrambi gravissimi torti verso Dio: nel secondo caso lo si
ritiene non “abbastanza buono” ma nel primo addirittura si usa della sua bontà
per offenderlo più a cuor leggero ed è un peccato ignobile e vile che purtroppo
oggi viene spacciato addirittura per alta teologia. Che cosa penseremmo se ci
regalassero qualcosa di estremamente bello e prezioso e ci si servisse dello
stesso regalo per fare del male al donatore?!
Il termine stesso,
“castigo” viene dal latino “castum agere”
cioè letteralmente “rendere mondo”, “purificare”. Basterebbe riflettere
sull’etimologia per comprendere come lo scopo più comune e principale del
castigo sia correggere un comportamento deviato e insegnare a non ricadervi. Un
genitore insegna al bambino, ancora inconsapevole delle conseguenze di certe
sue azioni “spericolate”, come astenersene anche attraverso i castighi, laddove
i richiami e altri metodi hanno fallito. Lo stesso fa con noi il Padre celeste:
il peccatore, sordo ad ammonimenti più “blandi” va talvolta rimesso in
carreggiata solo tramite uno scossone.
Il problema si complica
però a causa di due circostanze su cui si riflette, se possibile, ancora meno.
Il primo è che il
peccato non si estingue con il pentimento e l’assoluzione, in alcuni casi
particolarmente gravi neppure la riparazione serve (pensiamo, ad esempio,
all’omicidio che è irreparabile).[4]
Il gesto in sé viene
perdonato, tuttavia ogni peccato accumula un “debito” con la giustizia divina, essendo offesa infinita perché l’oggetto,
Dio, è appunto infinito.
Al giorno d’oggi siamo
abituati a ricevere in confessionale penitenze che definire blande è
eufemistico: qualche pater ave gloria, nei casi più zelanti forse una corona di
rosario. Senza entrare nel merito specifico (solo il confessore, per mezzo
della virtù della prudenza sa cosa è meglio: probabilmente se aumentasse la
penitenza, si potrebbe rischiare che molti non l’assolvano adeguatamente) si
vuole però sottolineare come questo perdono “facile” possa, su diverse coscienze
già deboli, ingenerare l’equivoco per cui il peccato, in fondo, è cosa di poco
conto se si “rimedia” con così poco.
Per dissipare un
simile, terribile inganno, basta rimirare il crocifisso. Ecco cosa provoca il
peccato, ecco cosa è servito per lavarlo: il sangue divino fino all'ultima
stilla.
E’ solo grazie a quel
sacrificio di valore infinito che noi ce
la “caviamo” con un pater ave gloria. Perché c’è chi ha pagato il prezzo pieno,
anzi oltre ogni misura in nostra vece.
Approfittarsi di questo
scudo è adempiere la volontà di chi lo ha versato: ogni cristiano, nel
sacramento della penitenza, lo invoca e se ne riveste quale condizione per
presentarsi senza tremare alla Comunione. Approfittarne però con malizia, per
continuare a peccare tacitando rimorsi di coscienza è commettere un gravissimo
sacrilegio.
Il secondo elemento,
che è pressoché estraneo al cattolico della domenica (e ahimè, anche alle
omelie domenicali…), ci ricorda di come il peccato abbia non solo una dimensione
individuale, bensì anche sociale. L’uomo
non pecca sempre da solo: uno scrittore che pubblichi un libro immorale oltre
alla colpa personale, si addossa anche la responsabilità gravissima di aver
usato il suo talento per diffondere nozioni o suggestioni negative e dunque si
addossa una parte del debito di chi compierà peccati sotto l’influsso della
cattiva lettura.
L’uomo che non sia un
eremita vive a stretto contatto con una gran quantità di suoi simili e pertanto
può essere connivente nel male o, al contrario, agevolare l’azione della grazia
attraverso una parola buona, l’esempio ecc.
Questa dimensione è
precisamente il motivo per cui, oltre al giudizio particolare che ogni anima
deve affrontare al momento della morte, si avrà un giudizio universale alla
fine del mondo. Due sono, infatti, le dimensioni del bene e del male: entrambe
saranno punite o premiate a tempo debito.
Ora, dopo aver passato
in rassegna questi fattori, proviamo a trarne le conclusioni logiche,
applicandoli alla società presente.
Il mondo attuale non
conosce castighi collettivi da oltre mezzo secolo –almeno dalla seconda guerra
mondiale. Se guardiamo alle leggi emanate dal 99% degli Stati, direttamente
opposte ai dieci comandamenti e al diritto naturale, agli scandali pubblici e a
tutti i delitti e colpe rimasti impuniti, anzi sovente lodati e assurti a
modello positivo di vita, a tutti gli abusi e all’abominio della desolazione,
al fumo di satana penetrato nella Chiesa, diverrà tragicamente evidente come il
debito contratto con la divina giustizia, a livello collettivo e sociale sia un
macigno sempre più insostenibile. A Fatima, quasi un secolo fa, la Madonna
ribadì con decisione che la guerra era un castigo di Dio per i peccati degli
uomini.[5]
Evidentemente per le colpe di allora, una guerra generale era la remunerazione
adeguata delle colpe e l’unico mezzo per innescare un cambio di rotta.
Vediamo da vicino però
come agisce Dio: manda una simile Madre per avvertire gli uomini prima del castigo minacciato, proprio
per indicare come evitarlo (la consacrazione della Russia al Cuore Immacolato,
in questo caso) e per descrivere dettagliatamente cosa aspetta in caso
contrario.
In pratica è come
presentarsi a un esame con un professore che ci ha già suggerito in anticipo le
domande e dettato le risposte! E questa sarebbe quella che viene dipinta come
la mano implacabile della giustizia divina…?
Purtroppo gli auspici
celesti non sono stati accolti dall’umanità neppure dopo che i fatti predetti
con tanta precisione si sono verificati puntualmente, e se il castigo appare
ancora sospeso dopo tanti decenni di corruzione silenziosa, c’è da tremare al
pensiero di cosa può avvenire se un Dio tanto buono “esita” a chiedere di
saldare il conto.
Tuttavia questo
salutare timore si accompagna alla gioiosa certezza che tutto si compirà
affinché trionfi finalmente, come promesso, il Cuore Immacolato. La
tribolazione del castigo è assimilabile alle doglie del parto: sono funzionali
alla nascita di un’umanità migliore.
Il castigo collettivo
non è uno spauracchio “nostradamico”: la
giustizia di Dio potremmo definirla come l’estrema manifestazione della sua
misericordia. Quando nulla più vale a rendere il lume della ragione e della
fede ad un’umanità resa cieca e sorda dalla sempre più fitta coltre dei propri
peccati, la sola bordata capace di squarciare questo velo che impedisce il
ricongiungimento a Dio è un castigo portentoso.
Perché Dio dovrebbe
riserbarlo alla nostra generazione? Perché
laddove la colpa sociale cresce in maniera così esponenziale, la responsabilità
individuale, al contrario, cala.
Infatti le due
componenti sono inversamente proporzionali e vorrei dimostrarlo con degli
esempi concreti che avvalorano questa tesi.
Sappiamo che per
parlare di peccato mortale si necessitano tre elementi: la materia grave, la
piena avvertenza e il deliberato consenso.
Ora, per quanto Dio
abbia senz’altro impresso nell’animo umano una legge naturale e una sorta di
“istinto” per discernere il bene e il male, è innegabile che il contesto, gli
insegnamenti ed esempi di famiglia e società incidono, d’ordinario,
profondamente nell’esperienza e nella conoscenza delle cose.
In un contesto di
società cristiana o di famiglia devota, è evidente che si ha una responsabilità
individuale molto alta e dunque anche un peccato lieve merita un certo rigore
perché “a chi è più dato più è richiesto”.
All’opposto abbiamo il
caso del “selvaggio” che è completamente digiuno di nozioni sovrannaturali
precise e che vive così come viene. A quest’ultimo sarà applicata più
indulgenza a causa della sua ignoranza incolpevole.[6]
Nel nostro tempo molti
sono nati in una situazione già gravemente compromessa dal punto di vista
religioso: ricevono dalla famiglia un’immagine di amore a tempo “determinato” a
causa del divorzio (che idea possono farsi, queste giovani anime, dell’amore
infinito di Dio senza una grazia speciale e infusa?), le domande riguardanti la
fede spesso restano senza risposta a causa dell’incuria di gran parte del clero
che anzi a volte con la sua condotta esecrabile anziché dissipare le tenebre ed
essere luce e sale del mondo, disonorano la loro altissima missione e aggravano
ulteriormente la confusione. Tutto, intorno a noi concorre a perdere la fede.
Ecco allora che un atto
di virtù un tempo “ordinaria” in simile tempesta assume dei contorni e quindi
dei meriti, eroici. Allo stesso modo
anche delle azioni nella sfera della “materia grave” possono recare attenuanti
date da una non completa avvertenza.
Ecco allora che Dio per
salvare una generazione così traviata al punto da non sapere più distinguere il
bene dal male non ha altro mezzo che un castigo collettivo.
Infatti quando “piove
sui giusti quanto sugli ingiusti” questo genera merito nei giusti se sopportato cristianamente –cioè in spirito
quantomeno di rassegnazione, che è il primo gradino dell’umiltà –guadagnando la
salvezza e una grande santificazione, mentre negli ingiusti può provocare o una
conversione in extremis (come il suddetto “buon ladrone” ad esempio), oppure la
definitiva remunerazione dei propri peccati, in una dannazione finale che
sarebbe intervenuta comunque.[7]
In quest’ottica rifulge
la grande lungimiranza di Dio che infligge un male minore (una tribolazione nel
tempo) per ottenere un bene maggiore (la salvezza per l’eternità).
Possano queste semplici
righe fare chiarezza sulla tanto bestemmiata Giustizia, troppo, troppo spesso
opposta alla Misericordia: la Giustizia di Dio, anche nel caso più rigoroso,
non è mai paragonabile all’essere abbandonati all’ingiustizia degli uomini.
Una delle eresie più
diffuse nei primi secoli era proprio quella di voler scindere a tutti i costi
la natura e le prerogative di Dio: il divino dall’umano e Dio Padre Giusto dal
Dio Figlio Misericordioso.[8]
Questi errori sono
stati condannati a più riprese da innumerevoli concili e pronunciamenti ufficiali
pontifici, eppure ciclicamente tornano ad insidiare il calcagno delle nuove
generazioni di cristiani, sommamente la nostra, che ha deposto la corazza degli
insegnamenti e della tradizione che ci mettevano in guardia e ci istruivano
contro queste piaghe.
Rivestiamoci di queste
armature e vivremo al contempo nella consapevolezza di quanto meritiamo e nella
consolazione di invocare Colei che trionferà nonostante qualsiasi dispiegamento
di forze infernali e, ancora una volta schiaccerà il capo del nemico di Dio e
dell’uomo.
[1] Nel corso della diatriba sui
terremoti: si veda http://www.robertodemattei.it/2011/06/02/i-castighi-di-dio-nella-fede-cattolica-il-professor-de-mattei-risponde-a-padre-mucci-s-j/
[2]
“Ma egli rispose: No, che talora, cogliendo le
zizzanie, non sradichiate insieme con esse il grano.” Mt 13, 29.
[3] Pensiamo a Caino: Dio lo castigò
ma allo stesso tempo “impose a Caino un
segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato” Gn 4, 15
[4] Tant’è vero che era annoverato,
nei primi secoli, tra i peccati non rimettibili da una semplice confessione ma
necessitava il martirio per essere espiato.
[5]“
Quando vedrete una notte illuminata da una luce
sconosciuta (Lucia ritenne che la "straordinaria" aurora boreale
nella notte del 25 Gennaio 1938 era il segno di Dio per l'inizio della guerra), sappiate che è il grande segno che Dio vi
dà che sta per castigare il mondo per i
suoi crimini, per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla
Chiesa e al Santo Padre.”
[6] Naturalmente qui vale il
discorso sulla Misericordia: abusare dell’ignoranza rendendola volontaria (cioè
non istruirsi volontariamente e colpevolmente nelle cose di fede è
lungi dallo scusare, anzi attira maggiore riprovazione.
[7] E’ teoria che Dio colmi la
misura degli impenitenti in modo “precoce”,
cioè stroncandone la “carriera” peccaminosa che seguitando avrebbe
meritato un inferno ancora peggiore.
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